Il D.Lgs. n. 758/1994 non regola il caso in cui il contravventore paghi oltre il termine di trenta giorni stabilito dall'art. 21, comma 2: peraltro, nel silenzio della norma, la giurisprudenza ha chiarito che l'effetto estintivo non si produce (analogamente a quanto avviene in caso di adempimento tardivo della prescrizione, ipotesi questa espressamente regolata dall'art. 24, comma 1 del decreto legislativo). La natura perentoria del termine di 30 giorni fissato dall’art. 21, comma 2 del D.Lgs. n. 758/1994, e la conseguente inefficacia del pagamento tardivo, fu chiarita da subito dalla giurisprudenza della suprema Corte (per Cass. pen. sez. III, 24 luglio 1998, Marzadro): «data l'evidente natura perentoria di tale termine», non è possibile che «dal tardivo pagamento della sanzione amministrativa, possa derivare l'effetto estintivo del reato».
Una successiva pronuncia della Cassazione (sez. IV penale, 3 dicembre 2002, Fagone), ebbe poi a chiarire che tutto il procedimento di estinzione delle contravvenzioni, previsto dal D.Lgs. n. 758/1994, «appare chiaramente improntato a passaggi successivi con caratteri di perentorietà». Ancora, Cass. pen., sez. III, 31 marzo 2005, Maratea ha ulteriormente precisato che, per la realizzazione dell’effetto estintivo previsto dall’art. 24 del D.Lgs. n. 758/1994, il contravventore «deve eliminare la violazione secondo le modalità prescritte dall’organo di vigilanza nel termine assegnatogli, e poi provvedere al pagamento della sanzione amministrativa nel termine di giorni 30. Il mancato rispetto anche di una sola delle due citate condizioni impedisce la realizzazione dell’effetto estintivo, a nulla rilevando che la previsione del termine per il pagamento non sia accompagnata da una esplicita sanzione di decadenza, atteso che la sua mancata previsione discende dalla natura della stessa di precondizione negativa dell’azione penale» (conformi Cass. pen., sez. III, 11 luglio 2008 n. 28831; Cass. pen., sez. III, 4 agosto 2008, n. 32575; Cass. pen. sez. III, 28 settembre 2011, n. 38942 e Cass. pen. sez. III, 26 febbraio 2014, n. 17012). Da ultimo, nel senso della perentorietà del termine di pagamento, Cass. pen., sez. III, 19 febbraio 2016, n. 6681 e Cass. pen., sez. III, 5 luglio 2018, n. 30171).
Secondo la suprema Corte, resta in ogni caso impregiudicato l’esercizio del diritto, per il contravventore, «alla restituzione di quanto tardivamente pagato»; pertanto, nel caso in cui l’autore della violazione abbia proceduto in ritardo al pagamento della somma dovuta a titolo di oblazione amministrativa, ha la possibilità di chiederne la restituzione, in base ai principi e alla disciplina civilistica dell’arricchimento senza causa in favore della pubblica amministrazione (art. 2041 del codice civile). E già prima della Cassazione, il ministero della Giustizia, con nota n. 128.14.625 del 15 ottobre 1997, in risposta allo specifico quesito dell’«adempimento tardivo della somma da corrispondere a titolo di oblazione ai sensi degli artt. 21 e segg. del D.Lgs. 19 dicembre 1994, n. 758», formulato da un ufficio giudiziario periferico (procura della Repubblica di Bologna), aveva affermato che il versamento tardivo della somma «non permette di fruire della causa estintiva»; sicchè, venuta meno la ragione del pagamento, il contravventore “può chiedere la restituzione della stessa all’amministrazione competente».
Peraltro, nel caso in cui il contravventore sia in grado di provare che il ritardo nel pagamento è riconducibile a caso fortuito o a causa di forza maggiore, riteniamo che possa essere ammesso all’immediato pagamento tardivo (ovvero che possa essere riammesso in termini).
Quanto al pagamento rateale della sanzione (deve ovviamente trattarsi di rateizzazione temporalmente eccedente il citato termine di 30 giorni di cui all’art. 21, comma 2 del D.Lgs. n. 758/1994, essendo sempre ammissibile –ma il caso è scolastico - la rateizzazione del pagamento nel rispetto del suddetto termine di 30 giorni), la soluzione appare a fortiori negativa. No, dunque, al pagamento tardivo, e a maggior ragione no al pagamento rateale della sanzione: del resto, se si ammettesse il pagamento rateale, ne verrebbe sconvolto il rigido sistema procedurale delineato dal D.Lgs. n. 758/1994, il quale vincola tutto l’iter del meccanismo sanzionatorio a sequenze temporali rigidamente cadenzate negli articoli 20 e 21. E per di più la “filosofia” premiale sottesa al suddetto meccanismo sanzionatorio è improntata a una logica di adempimento postumo (posteriore all’epoca di accertamento del reato) da parte del contravventore, purché tempestivo: chi versa in una situazione di illiceità, deve essere disposto a pagare “tutto subito” proprio al fine di evitare di dover affrontare il giudizio in ordine all’accertamento della propria responsabilità penale.
Né, in siffatto contesto, appare utilmente praticabile il modello normativo delineato nell’art. 26 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (legge quadro di depenalizzazione), il quale attiene al pagamento rateale delle sanzioni pecuniarie per le violazioni amministrative (nel nostro caso, infatti, si tratta di illeciti penali, sia pure definibili nella sede amministrativa). Per di più, nell’ipotesi dell’art. 26 della legge n. 689/1981, la rateizzazione è susseguente all’accertamento della responsabilità e all’applicazione della sanzione; dunque al di fuori di quella logica premiale e di “sconti” che caratterizza la “ratio” complessiva del D.Lgs. n. 758/1994.
Sul tema della rateizzazione anche la Cassazione (sez. III penale, 17 dicembre 2012, n. 48798) ha lapidariamente affermato che la natura del termine di 30 giorni, prevista per il pagamento della sanzione pecuniaria dal D.Lgs. n. 758/1994, è «perentoria ed improrogabile»; sicché il rigoroso rispetto del suddetto termine è stato ritenuto «incompatibile con la rateizzazione del pagamento domandata dall'imputato».
Peraltro, l’ipotesi di sanzioni di ammontare elevato in caso di plurime violazioni è ora attenuata per effetto del particolare regime sanzionatorio introdotto dal D.Lgs. n. 106/2009, integrativo e correttivo del D.Lgs. n. 81/2008, in base al quale (ad esempio all’art. 87 del citato D.Lgs. n. 81/2008) la violazione di più precetti riconducibili a «categoria omogenea (…) è considerata una unica violazione, penale o amministrativa a seconda della natura dell’illecito».
Su questo specifico tema si segnala la pronuncia di Cass. pen. sez. III, 23 dicembre 2015, n. 50440: in tema di violazione dei «requisiti dei luoghi di lavoro» previsti dall’allegato IV al D.Lgs. n. 81/2008, i giudici di legittimità hanno ritenuto che i precetti contenuti nel citato allegato, in particolare in ciascun punto (per tale dovendosi intendere il singolo contrassegno numerico: ossia 1.1, 1.2, 1.3, 1.4, 1.5 ecc., e, ove specificato, nei singoli sottopunti), «in quanto raggruppati sulla base di un criterio selettivo finalizzato alla tutela di un comune interesse specifico o requisito di sicurezza, rientrano nella stessa categoria omogenea» con la conseguenza che l'inosservanza di più, tra essi, non integra un concorso materiale di reati, bensì un'unica violazione. Al contrario, la violazione di precetti appartenenti a categorie disomogenee, in quanto riguardanti classi di interessi contenute in punti diversi dell’allegato IV al D.Lgs. n. 81/2008 (ad esempio, il punto 1.1 e il punto 1.5, e via dicendo), danno luogo a plurimi reati.
Con riguardo poi al secondo aspetto, inerente all’ammissibilità che il pagamento monetario delle sanzioni possa essere effettuato non dall’autore materiale delle violazioni (contravventore) bensì da un terzo (ad esempio dalla società di appartenenza), la risposta è positiva. Trattandosi di sanzione amministrativa (tant’è che il pagamento della somma di danaro pari a un quarto del massimo dell’ammenda stabilita per la contravvenzione, deve avvenire con versamento «in sede amministrativa», come prescrive espressamente l’art. 21, comma 2 del D.Lgs. n. 758/1994; e nel frattempo il procedimento penale, pur iscritto dal pubblico ministero nei registri del proprio ufficio giudiziario, rimane «sospeso» ai sensi dell’art. 23 del decreto legislativo), non opera il principio della personalità della responsabilità che caratterizza il settore penale.
Per altro verso l’emenda del contravventore, rispetto al disvalore sociale (e anche penale) del fatto commesso, avviene con la regolarizzazione della violazione mediante l’adempimento della prescrizione impartita dall’Organo di vigilanza, piuttosto che con il pagamento della sanzione: il quale ultimo rappresenta invece una misura compensativa della situazione di pericolo determinata ed eventualmente protratta con la condotta antigiuridica. Di modo che il sistema registra con indifferenza il profilo soggettivo del pagamento; e ciò è perfettamente in linea con la “filosofia” mediana e compromissoria che fa da sfondo al D.Lgs. n. 758/1994.
Certo l’ipotesi del pagamento della sanzione a opera di terzi (prescindendosi in questa sede dall’analisi dell’eventualità della rivalsa patrimoniale del terzo nei confronti del soggetto obbligato quale autore della violazione) amplifica uno degli aspetti caratterizzanti in senso negativo il pur efficace meccanismo sanzionatorio previsto dal D.Lgs. n. 758/1994: il quale tende a produrre, quale effetto indesiderabile, quello della “contabilizzazione” del costo giudiziario quale costo d’impresa, derivante dalla possibile “monetizzazione” della sanzione penale. Infatti la “filosofia” premiale che informa la procedura sanzionatoria, pur determinando l’effetto positivo per il quale, sotto la minaccia della sanzione penale, il contravventore è spinto a regolarizzare la violazione (e dunque si consegue il benefico risultato di eliminare, direttamente e sul piano sostanziale, la situazione antigiuridica), consente tuttavia, grazie al pagamento di somme di denaro in misura molto ridotta (un quarto del massimo dell’ammenda stabilita per ciascuna violazione), una “anestetizzazione” della sanzione, che certo non rispecchia valori positivi.
Favorevole alla possibilità che al pagamento provveda persona diversa dal contravventore, è stata per prima la pronuncia di Cass. pen., sez. III, 11 febbraio 2002, Curti e altro. In seguito, in un caso in cui il pagamento della sanzione era avvenuto da parte degli amministratori subentrati a quello cui la violazione era stata contestata, Cass. pen. 1° febbraio 2012, n. 4347 ha ritenuto che l'estinzione non poteva che riverberarsi «anche a favore del precedente amministratore». Successivamente Cass. pen., sez. III, 17 maggio 2012, n. 18914, ha ritenuto che, nell’ipotesi in cui l'obbligazione faccia capo a persona che operi in una società che provveda a ottemperare alle prescrizioni, l'oblazione amministrativa «opera a favore della persona fisica dipendente che abbia contravvenuto», e che questa eventualità costituisce un “principio generale”, atteso che una diversa interpretazione «si risolverebbe in un'irragionevole limitazione dell'ambito di operatività della causa speciale di estinzione del reato chiaramente introdotta dal legislatore allo scopo di interrompere l'illegalità e di ricreare le condizioni di sicurezza previste dalla normativa a tutela dei lavoratori. Il raggiungimento di tale risultato, sia pure attraverso l'assunzione dell'onere del pagamento da parte della società cui appartiene la persona fisica che ha contravvenuto, fa passare in secondo piano l'interesse dello Stato alla punizione di quest'ultima». Da ultimo Cass. pen., sez. III, 28 agosto 2017, n. 39449, ha ribadito che «il pagamento della sanzione amministrativa effettuato ai sensi del Decreto Legislativo 19 dicembre 1994, n. 758, articolo 24 dal legale rappresentante della società riverbera l'effetto estintivo anche a favore del dipendente-contravventore, che abbia operato come persona fisica all'interno dell'azienda».