Sottotitoli disponibili; per attivarli, cliccare sulla prima icona in basso a destra del video
Anche se, a un primo sguardo, può apparire completo, in generale va osservato che il quadro legislativo italiano in materia di bonifiche oscilla tra alti e bassi, passando da un vero e proprio vuoto normativo a una specie di “invasione di campo” nella quale il provvedimento legislativo occupa spazi di competenza della normazione tecnica. Detto questo la considerazione di fondo è che la norma italiana si distingue per essere poco chiara di difficile interpretazione e applicabilità.
Questa è una situazione che crea casi drammatici perché se una norma poco chiara si innesta su un clima sociale, un clima culturale in cui si tende a fare un ricorso spesso inutili ai tribunali o si innesta su un'amministrazione di stampo ancora borbonico possiamo capire quali potrebbero essere le conseguenze; in pratica, per l'operatore del settore delle bonifiche è come camminare su un campo minato o un percorso ad ostacoli; in ogni caso, non è il modo migliore per operare.
I due campi in cui forse la mancanza della normativa italiana si distingue nel settore ambientale sono quello terre o rocce da scavo e quello dei materiali di riporto.
A livello legislativo, da quando sono entrati in vigore il “decreto Ronchi”, seguito da quello sulle bonifiche , il D.M. n. 471/1999, per un po’ di anni la legislazione ambientale è rimasta abbastanza stabile. Da quel momento in poi sono susseguite una serie di interventi che in gergo vengono chiamati successive modifiche e integrazioni (“s.m.i.”), molto eterogenei: si passa dalle integrazioni al completo rifacimento di una legge, al chiarimento all’interpretazione autentica, alla circolare applicativa. Interventi che poi vannoi a innestarsi su una situazione in cui la giurisprudenza è molto varia e spesso anche contraddittoria e in cui è difficile che gli enti locali riescano a stare dietro a livello applicativo a tutti questi cambiamenti. Un esempio è la recentissima circolare emanata dal ministero dell'ambiente sui materiali di riporto (ennesima testimonianza del fatto che ci sia bisogno spesso di avere dei chiarimenti) che cerca di fare chiarezza su una situazione molto travagliata; l’auspicio è che venga effettivamente fatta chiarezza, ma permangono dubbi non tanto in riferimento alla circolare, quanto in riferimento alla capacità del tutto italiana di non saper cogliere questi elementi di chiarimento. Processi di questo tipo sono abbastanza frequenti nella normazione italiana: se pensiamo alle terre e rocce da scavo e pensiamo che è stato emanato un decreto che dopo qualche anno è stato colpito e affondato ed è stato necessario riscrivere completamente questo decreto ad anni di distanza, si ricasca nella stessa situazione. L’auspicio è che questo decreto possa conseguire gli obiettivi posti dal legislatore, tenendo conto dei numerosi punti di contraddittorietà e difficoltà interpretativa e difficile applicabilità che ha contraddistinto il primo provvedimento.
Contraddittorietà che può raggiungere livelli quasi paradossali; un esempio può essere utile. Una persona con un grado di conoscenza media della legislazione sa che se beve l'acqua del proprio rubinetto contaminata da solventi clorurati in concentrazione di 10 microgrammi per litro può vivere tranquillo: la legge gli dice chi non è a rischio sanitario. Ma allora a volte un operatore potrebbe porsi quest’altra domanda: ma se io ho un’acqua stagnante a pochi decimetri o a pochi metri dal sottosuolo (piano campagna) e quest’acqua stagnante contiene dieci volte meno solventi clorurati di quelli che sono ammessi per la potabilità perché la devo chiamare “velenosa”, perché devo dire che è molto pericolosa, molto tossica per l’uomo e per l'ambiente? Questo è un classico esempio di contraddizioni dove lo stesso oggetto “acqua contaminata da solventi colorati” in un caso è potabilissima, nell’altro, invece, è un veleno.