(Cassazione 2234/2022: il punto sul diritto penale ambientale)
Con la sentenza 20 gennaio 2022, n. 2234, la III sezione penale della Corte di Cassazione ha affrontato numerosi temi di interesse per la materia ambientale.
Non si tratta di temi particolarmente nuovi o di portata innovativa, ma certamente la loro trattazione unitaria consente di tracciare un quadro piuttosto preciso degli argomenti di maggiore interesse per la giurisprudenza nell’ambito dei reati ambientali e dell’organizzazione aziendale che si trova ad affrontare i relativi rischi.
I fatti
La vicenda processuale si riferisce all'inquinamento del suolo e del sottosuolo causato da reiterate perdite, in un limitato periodo di tempo, avvenute in una raffineria e vede coinvolti diversi esponenti aziendali, dall’amministratore delegato, al responsabile del servizio, sino ai responsabili di linea o di turno giornaliero.
Le contestazioni mosse agli imputati sono stati il reato di omessa bonifica (art. 257, comma 1 e 2, D.Lgs. n. 152/2006) e di gestione abusiva e deposito incontrollato (artt. 256, comma 1, lettera b), e comma 2, D.Lgs. n. 152/2006], tutti contestati a titolo di concorso doloso (art. 110, cp) e non di cooperazione colposa (art. 113, cp). Infine, in relazione al reato di deposito incontrollato, come aggravato dalla normativa speciale di cui al decreto-legge 6 novembre 2008, n. 172, convertito con modificazioni dalla legge n. 210/2008, è stata coinvolta la società per il suo autonomo titolo di responsabilità di cui all’art. 25-undecies, D.Lgs. n. 231/01.
La nozione di rifiuto
Il primo tema trattato dalla sentenza riguarda la riconducibilità della virgin-nafta (prodotto della raffinazione del petrolio utilizzato come combustibile o per ottenere carburanti per motori diesel), sversata e dispersa nell’ambiente, alla nozione di rifiuto.
La tesi difensiva, infatti, basata proprio sulla qualità della sostanza, ovvero una delle più importanti che si ottengono dal processo di raffinazione del petrolio e certamente destinata alla vendita, è stata quella di escludere la riconducibilità della stessa alla nozione di rifiuto, sostenendo che la qualità di “rifiuto” deve necessariamente preesistere al suo smaltimento.
Rispetto a questa prima doglianza, la corte di Cassazione ha cominciato il suo percorso d’analisi utilizzando la definizione di rifiuto prevista dall’art. 1, lettera a), direttiva 75/442 e affermando che la sola previsione di cui al punto Q4 dell’allegato I (che menziona tra le sostanze riconducibili alla definizione comunitaria di rifiuto anche quelle accidentalmente riversate o perdute nell’ambiente) non consente di per sé di qualificare rifiuti gli idrocarburi che siano stati accidentalmente sversati e che siano all'origine di un inquinamento. Ogni valutazione deve, invece, spostarsi sull’accertamento della condotta di “disfarsi” nonché sulle possibilità di un effettivo riutilizzo della sostanza sversata a condizioni economicamente vantaggiose senza prima sottoporlo a trasformazione.
Rispetto, quindi, alla sostanza oggetto di accertamento processuale, la suprema Corte ha richiamato le osservazioni di fatto emerse nel corso dei gradi di giudizio precedenti che hanno accertato come lo sfruttamento e la commercializzazione di idrocarburi sversati o emulsionati con l'acqua o, ancora, agglomerati con sedimenti, siano operazioni aleatorie, financo ipotetiche, e, anche ammettendo la loro effettiva praticabilità, le stesse avrebbero comportato particolari oneri finanziari.
In particolare, sulla scorta di quanto sopra ed attingendo direttamente dalla normativa comunitaria e dalle pronunce della corte di Giustizia, la corte di Cassazione è giunta ad affermare il principio di diritto riportato nel box 1.
Sugli idrocarburi sversati
«Gli idrocarburi sversati accidentalmente ed inquinanti il terreno e le acque sotterranee devono essere qualificati come rifiuti ai sensi della direttiva 75/442, come interpretata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione Europea, trattandosi di sostanze delle quali il detentore “si disfa”, non costituendo un prodotto riutilizzabile senza trasformazione ed essendo la sua commercializzazione aleatoria e, implicante operazioni preliminari che non sono economicamente vantaggiose».
Il tema del dolo
La sentenza affronta, poi, il tema del dolo, già analizzato proprio in relazione ai delitti ambientali e, talvolta, trattando della natura dei reati ambientali, spesso frutto di una scelta che può generare non poche commistioni con l’elemento soggettivo del reato.
Il reato ambientale, infatti, trae spesso “origine” da una condotta commissiva, anche nei casi in cui non è l’esercizio di un’attività a essere in discussione, ma la sua realizzazione in difetto di un presupposto di legge. È vero, come talvolta è possibile osservare, che, in queste ipotesi, potrebbe essere posto l’accento sul risvolto omissivo della condotta che costituisce il reato, ossia la mancata richiesta (e ottenimento) del provvedimento autorizzativo, ma nelle aule di giustizia si discute quasi sempre del lato commissivo, nel quale è insita la scelta dell’imprenditore di porre in essere una determinata attività senza avere previamente ottenuto l’autorizzazione.
Se questo è vero con riferimento ai reati ambientali più strettamente formali (appunto quelli dove è contestato il difetto di autorizzazione), lo è, a maggior ragione, nelle fattispecie dove è posta in essere un’attività non autorizzabile come, per esempio, la discarica abusiva, oppure un’attività compiuta scegliendo una qualificazione giuridica non condivisa dagli enti di controllo.
A questa particolarità del reato ambientale se ne aggiunge un’altra e cioè quella della natura tendenzialmente volontaria dell’illecito penale in materia di tutela dell’ambiente. L’esistenza di una matrice volontaria non significa necessariamente dolo in senso tecnico. Si tratta, invece, semplicemente di constatare che gran parte degli illeciti ambientali, anche se sono normalmente ascritti al paradigma della colpa (ed effettivamente spesso hanno evidenziato almeno una componente colposa), in realtà risiedono in comportamenti che non sono il frutto di negligenza, imprudenza, imperizia o violazione di norme, ma sono il risultato di una scelta (chi decide di qualificare un proprio residuo di produzione quale sottoprodotto anziché rifiuto coglie una precisa opzione di segno imprenditoriale e l’elemento colposo potrà riguardare, semmai, la non prudenziale interpretazione delle norme tecniche alla luce della giurisprudenza e della prassi amministrativa di settore).
Nel caso in esame, nei due gradi di merito, l’autorità giudiziaria ha approfondito sia il degrado ambientale del sito produttivo sia la mala gestio delle attività di manutenzione, ordinaria e straordinaria, riconducendola non a incuria, ma a una scelta così chiara da integrare il dolo, seppur nella sua forma eventuale.
La corte di Cassazione ha proseguito il ragionamento e ha utilizzato le risultanze del merito processuale, incasellandole negli elementi dalla cui esistenza, secondo una consolidata giurisprudenza che trova origine dalla cosiddetta “sentenza Thyssekrupp”, è configurabile il dolo eventuale (vedere il box 2).
Sul dolo eventuale
«Per la configurabilità del dolo eventuale, anche ai fini della distinzione rispetto alla colpa cosciente, occorre la rigorosa dimostrazione che l’agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta aderendo psicologicamente ad essa e a tal fine l’indagine giudiziaria, volta a ricostruire l'”iter” e l’esito del processo decisionale, può fondarsi su una serie di indicatori quali: a) la lontananza della condotta tenuta da quella doverosa; b) la personalità e le pregresse esperienze dell’agente; c) la durata e la ripetizione dell’azione; d) il comportamento successivo al fatto; e) il fine della condotta e la compatibilità con esso delle conseguenze collaterali; f) la probabilità di verificazione dell’evento; g) le conseguenze negative anche per l’autore in caso di sua verificazione; h) il contesto lecito o illecito in cui si è svolta l’azione nonché la possibilità di ritenere, alla stregua delle concrete acquisizioni probatorie, che l’agente non si sarebbe trattenuto dalla condotta illecita neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell’evento».
Seguendo questo ragionamento si traggono diversi spunti organizzativi, alcuni piuttosto banali, per un’adeguata strutturazione del sistema di procedure, registrazione e controlli che possa essere utilizzato e utilizzabile a difesa di persone fisiche e giuridiche coinvolte in procedimenti relativi a reati ambientali.
In buona sostanza ciò che viene richiesto è che:
- le attività di manutenzione ed ispezione degli impianti venga efficacemente programmata;
- le relative cadenze siano adeguate, motivate e rispettate;
- questo sistema di controllo sia conosciuto con certezza dagli operatori chiamati ad attuarlo;
- la compilazione dei registri non sia lacunosa e sia particolarmente prudente, onde evitare di scrivere “troppo o troppo poco”.
L’assenza dei sintetizzati elementi, unitamente allo stato fatiscente delle infrastrutture del sito produttivo, sono stati «indicatori significativi della sussistenza di gravi indizi dell’elevata probabilità di verificazione dell'evento. In queste condizioni, la dispersione del gasolio del suolo e del sottosuolo costituiva “un evento annunciato” a fronte del quale evidente era la necessità di porre in essere azioni indirizzate in modo deciso e risolutivo finalizzate ad impedire l'evento e, o, il suo protrarsi in un arco temporale significativo».
La ripartizione delle responsabilità
Un terzo argomento, decisamente correlato agli aspetti organizzativi e di buona gestione delle procedure e dei processi aziendali, è quello della ripartizione delle responsabilità.
Ben pochi dubbi sussistono, infatti, in relazione alla responsabilità diretta dei responsabili di linea o di turno giornaliero; questo anche sulla base della sintetica analisi dei principi procedurali e di processo di cui il sito produttivo si è dotato. Più aperta resta la discussione in merito alla riconosciuta responsabilità dell’amministratore delegato.
La corte di Cassazione ritiene che, sulla scorta della complessità della struttura aziendale e della ripartizione di mansioni e competenze tra i vari soggetti individuati in organigramma, non possa certo essere chiesto all’amministratore delegato di effettuare un controllo capillare dell’organizzazione stessa e dell’attività lavorativa. Tuttavia, l’inquinamento verificatosi deve – stando alle parole della Corte – essere ricondotto a «scelte gestionali di fondo ed in particolare a quelle non deliberatamente attente alla prevenzione del danno ambientale quale quella dell'omessa manutenzione dei bacini di contenimento» che consentono di individuare una responsabilità penale anche in capo al vertice dell’organizzazione.
La sentenza di condanna, confermata in sede di giudizio di legittimità, ha considerato anche ampiamente dimostrata la conoscenza da parte dell’amministratore delegato della complessiva situazione di degrado in cui versava l’impianto, essendo la stessa emersa nel corso della procedura per il rilascio dell’Aia e desumibile senza ambiguità dalla natura delle prescrizioni imposte in quella sede.
Pertanto, questi è stato dichiarato responsabile «in considerazione dell’omessa vigilanza dell’osservanza dei modelli aziendali e per non aver promosso o proposto, nelle adeguate sedi deliberative, adeguati piani di investimento per la manutenzione dei bacini di contenimento e delle tubature da servizio dei serbatoi, e comunque per non avervi provveduto direttamente entro il budget di spesa da lui gestibile, giacché se il sistema di controllo previsto dai modelli aziendali fosse stato attuato, le perdite dai fatiscenti tubi del serbatoio fossero state immediatamente contenute e bloccate, se il pavimento del bacino di contenimento fosse stato idoneo alla sua funzione, la sostanza pericolosa non sarebbe mai penetrata nel suolo e nel sottosuolo».