Il testo unico ambientale: l’evoluzione dal 2006 a oggi

Guida all'ambiente 2022 - Capitolo 1. Dalla tutela ambientale negli artt. 9 e 41 della Costituzione all’istituto dell’interpello ambientale, un’analisi a tutto tondo delle più recenti modifiche al D.Lgs. n. 152/2006

(Il testo unico ambientale: l’evoluzione dal 2006 a oggi)

La prima importante normativa ambientale di settore è stata la legge 10 maggio 1976, n. 321 sull’inquinamento delle acque (cosiddetta “legge Merli”). Nei decenni successivi, si sono aggiunte varie normative relative ad altri settori della tutela ambientale, dalla disciplina sui rifiuti a quella sulla valutazione di impatto ambientale, fino a quella sulle emissioni in atmosfera e ad altre più circoscritte. Con il nuovo millennio, ci si è mossi con decisione verso l’idea di un’unificazione e codificazione della normativa ambientale, nella speranza di renderla più semplice, più stabile e più facilmente conoscibile da parte degli operatori. Si è così giunti al ben noto “testo unico ambientale” (di seguito “Tua”) approvato - a seguito di una legge parlamentare di delega (legge n. 308/2004) - con il decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152. Non si può certo dire che i tre menzionati obiettivi (maggiore semplicità, stabilità e conoscibilità della normativa ambientale) siano stati pienamente raggiunti. Infatti, la complessità delle materie da regolare ha reso impossibili semplificazioni radicali, mentre i continui (e francamente troppo frequenti) rimaneggiamenti del testo normativo hanno impedito il formarsi di un “codice” stabile di norme facilmente conoscibili. A ciò va aggiunto che alcuni settori del diritto ambientale – ad esempio la disciplina dei rumori, quella sulle terre e rocce da scavo o quella sulla autorizzazione unica ambientale – sono rimasti formalmente estranei al “testo unico”. Peraltro, laddove necessario per completezza di esposizione, saranno commentate nel prosieguo anche le normative rimaste estranee al Tua, ma comunque di rilevante interesse.

È comunque innegabile che, dopo l’approvazione del D.Lgs. n. 152/2006, la materia ambientale abbia acquisito una dignità accresciuta all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale. Prevedibilmente, a ciò si è unita un’attività interpretativa sempre più intensa e incisiva da parte della magistratura ordinaria (penale e civile), come di quella amministrativa (tribunali amministrativi regionali e Consiglio di Stato). Per questa ragione, come già fatto nelle precedenti edizioni, anche negli approfondimenti di questa Guida all’Ambiente 2022 – che si colloca ad oltre quindici anni dalla approvazione del testo unico – le interpretazioni giurisprudenziali sono descritte con ampia rilevanza.

 

I PRINCIPI

Il D.Lgs. n. 152/2006 chiarisce, in apertura (art. 3-bis) come i criteri generali fissati nel decreto costituiscano i principi generali in tema di tutela dell’ambiente, adottati in attuazione degli articoli 2, 3, 9, 32, 41, 42 e 44, 117, commi 1 e 3, della Costituzione e nel rispetto degli obblighi internazionali e del diritto comunitario. Ciò vale come necessario criterio orientativo, anche per regioni ed enti locali, nell’adozione degli atti normativi, di indirizzo e di coordinamento e nell’emanazione dei provvedimenti di natura contingibile e urgente.

Nel merito, con il principio dell’azione ambientale (art. 3-ter) si prevede che la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale debba essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante un’adeguata azione che sia informata ai principi:

  • di precauzione;
  • di azione preventiva;
  • di correzione (in via prioritaria alla fonte) dei danni causati all’ambiente;
  • “chi inquina paga”.

Principi questi che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2 del trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale. Tra questi, il principio di precauzione è quello che, nella pratica, determina le conseguenze più rilevanti per l’attività delle imprese. Esso, in sostanza, comporta che sia preferibile adottare preventivamente alcune cautele (anche in casi nei quali vi sia incertezza scientifica sul rischio) piuttosto che tentare di correre ai ripari (spesso troppo tardivamente) dopo che il danno si è verificato, concetto che nella letteratura anglosassone viene sintetizzato in “better safe than sorry”. Sarebbe difficile – apparentemente - immaginare un’idea più ovvia, sulla quale il consenso possa risultare più spontaneo. Nella realtà, le cose non sono così semplici. Infatti, in primo luogo, le informazioni disponibili sulle caratteristiche e sulla probabilità del rischio sono spesso inadeguate; inoltre - e soprattutto - in alcuni casi soltanto attraverso un comportamento “rischioso” è possibile ottenere importanti vantaggi per la nostra vita individuale o sociale (come, ad esempio, nella situazione in cui si deve accettare un certo grado di esposizione a inquinanti nell’ambiente di lavoro, al fine di non pregiudicare eccessivamente, attraverso cautele troppo costose, il reddito e la capacità economica di uno stato). Il principio di precauzione può essere utilissimo per ridurre efficacemente i rischi ambientali e sanitari, a condizione di:

  • considerare non soltanto i vantaggi, ma anche gli svantaggi derivanti dall’adozione di determinate misure di cautela;
  • studiare e applicare misure di cautela proporzionate al rischio;
  • applicare in definitiva questo principio sulla base di una attenta analisi costi-benefici, che però non sia limitata agli aspetti quantitativi, ma consideri anche i profili qualitativi delle varie situazioni esaminate.
  •  

Questo approccio è esattamente quello seguito dagli artt. 301 e seguenti, D.Lgs. n. 152/2006, che specifica in dettaglio i contenuti del principio di precauzione. L’art. 301 è, infatti, specificamente dedicato – nell’ambito della parte sesta («Norme in materia di tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente») – all’«Attuazione del principio di precauzione». In particolare, il relativo comma 1 prevede, in termini generali, che «in applicazione del principio di precauzione di cui all’articolo 174, paragrafo 2, del Trattato Ce, in caso di pericoli, anche solo potenziali, per la salute umana e per l’ambiente, pur se non vi sia certezza scientifica in ordine all’effettività del rischio, deve essere assicurato un alto livello di protezione»[1] In questo senso la giurisprudenza amministrativa ha sempre sostenuto che il principio di precauzione, di derivazione comunitaria (articolo 7, regolamento n. 178/2002), prevede che, quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di questi rischi (si vedano le sentenze del Consiglio di Stato, sez. V, 24 maggio 2018, n. 3109; sez. IV, 8 febbraio 2018, n. 826; sez. IV, 27 febbraio 2017, n. 1392; sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3767). . I successivi commi dell’articolo sono, tuttavia, esplicitamente finalizzati a definire i limiti e le condizioni di applicazione del principio, prevedendo (con indicazioni sostanzialmente corrispondenti ai criteri fissati nella comunicazione n. 2/2000 della Commissione europea) che:

«l’applicazione del principio concerne il rischio che comunque possa essere individuato a seguito di una preliminare valutazione scientifica obiettiva»;

le misure adottabili dal ministero dell’Ambiente, ai sensi dell’art. 304, D.Lgs. n. 152/2006 («Azione di prevenzione») siano:

«a) proporzionali rispetto livello di protezione che s’intende raggiungere;

b) non discriminatorie nella loro applicazione e coerenti con misure analoghe già adottate;

c) basate sull’esame dei potenziali vantaggi ed oneri;

d)  aggiornabili alla luce di nuovi dati scientifici».

Il principio di precauzione viene poi esplicitamente menzionato nell’ambito delle disposizioni riguardanti i rifiuti, contenute nel testo unico ambientale. In particolare, secondo l’art. 178, «la gestione dei rifiuti (…) deve conformarsi ai principi di precauzione, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nel rispetto dei principi dell’ordinamento nazionale e comunitario, con particolare riferimento al principio comunitario “chi inquina paga”».

Conclusivamente, è possibile affermare che il principio di precauzione sia oggi certamente, anche in Italia, uno dei fondamentali criteri per l’interpretazione e l’applicazione di tutta la normativa nazionale di settore in materia di ambiente. Analoghe considerazioni valgono, naturalmente, per la normativa regionale, posto che – secondo il rinnovato art. 117 della Costituzione – «Le Regioni (…) nelle materie di loro competenza, (…) provvedono all’attuazione e all’esecuzione degli accordi internazionali e degli atti dell’Unione europea».

 

Con altrettanta certezza si deve, tuttavia, affermare la necessità di interpretare la regola precauzionale alla luce del principio di proporzionalità. E, infatti, al riguardo:

- «la legittimità del divieto di un’attività economica è subordinata alla condizione che il provvedimento sia idoneo e necessario per il conseguimento degli scopi perseguiti dalla normativa, fermo restando che, qualora sia possibile una scelta fra più misure appropriate, si deve ricorrere alla meno restrittiva e che gli inconvenienti causati non devono essere sproporzionati rispetto agli scopi perseguiti» [2]Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 13 novembre 1990, in causa C-331/88. ;

- «al fine di stabilire se una norma di diritto comunitario sia conforme al principio di proporzionalità, si deve accertare se i mezzi da essa contemplati siano idonei a conseguire lo scopo perseguito e non eccedano quanto è necessario per raggiungere detto scopo»[3]Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 22 novembre 2001, in causa C-110/97. ;

- «nell’esercizio del loro potere discrezionale relativo alla tutela della salute, gli Stati membri devono rispettare il principio di proporzionalità. Pertanto, i mezzi che essi scelgono devono essere limitati allo stretto necessario per garantire la tutela della salute o per soddisfare esigenze imperative attinenti, ad esempio, alla difesa dei consumatori; essi devono essere proporzionati all’obiettivo così perseguito, il quale non avrebbe potuto essere conseguito con misure meno restrittive[4]Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 5 febbraio 2004, in causa C-24/00. ;

- «anche se si riconosce la necessità di tutelare la salute come preoccupazione principale, il principio di proporzionalità deve essere rispettato»; anche questo aspetto è «soggetto al controllo del giudice»[5]Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 1° aprile 2004, in causa C-286/02 (esattamente considerata espressione di un orientamento rigoroso nella tutela della salute). ;

- «gli Stati membri devono rispettare il principio di proporzionalità. I mezzi che essi scelgono devono essere pertanto limitati a quanto è effettivamente necessario per garantire la tutela della salute; essi devono essere proporzionati all’obiettivo così perseguito, il quale non avrebbe potuto essere raggiunto con misure meno restrittive per gli scambi intracomunitari»[6]Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 2 dicembre 2004, in causa C-41/02. ;

-  inoltre, sempre secondo la Corte europea di giustizia, il criterio di proporzionalità deve essere apprezzato in una prospettiva dinamica, non statica; infatti, «ove vi siano nuovi elementi che modificano la percezione di un rischio o mostrano che tale rischio può essere circoscritto da misure meno severe di quelle esistenti, spetta alle istituzioni, e in particolare alla Commissione, che dispone del potere d’iniziativa, vigilare sull’adeguamento della normativa ai nuovi dati»[7]Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 12 gennaio 2006, in causa C-504/04. ;

  • in Italia, la giurisprudenza amministrativa ha da tempo chiarito che il principio di proporzionalità impone «l’adozione, fra più misure appropriate, di quella che impone il minimo sacrificio, per il conseguimento degli scopi legittimamente perseguiti»[8]Così espressamente la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 11 novembre 2003 n. 7993. . È stato poi precisato, anche recentemente, che l’imposizione – in sede di autorizzazione – di prescrizioni ambientali più severe rispetto a quelle fissate in via generale dalla legge è possibile alla precisa condizione che queste prescrizioni vengano rigorosamente individuate «alla stregua dei principi di proporzionalità e precauzione»[9]Sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 9 settembre 2005, n. 4648. .

L’importante decisione del Consiglio di Stato 26 luglio 2021, n. 5535 (riprendendo e ampliando alcuni concetti espressi dalla sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 7 maggio 2021, n. 3597) ha riassunto in termini molto chiari il significato del principio di precauzione in materia ambientale, anche nei suoi rapporti con il principio di proporzionalità. Queste le espressioni utilizzate dai giudici: «Il principio di precauzione non può legittimare una interpretazione delle disposizioni normative, tecniche ed amministrative vigenti in un dato settore che ne dilati il senso fino a ricomprendervi vicende non significativamente pregiudizievoli; la situazione di pericolo deve essere potenziale o latente ma non meramente ipotizzata e deve incidere significativamente sull’ambiente e la salute dell’uomo. Sotto tale angolazione il principio di precauzione non consente ex se di attribuire ad un organo pubblico un potere di interdizione di un certo progetto o misura; in ogni caso il principio di precauzione affida alle autorità competenti il compito di prevenire il verificarsi o il ripetersi di danni ambientali, ma lascia alle stesse ampi margini di discrezionalità in ordine all’individuazione delle misure ritenute più efficaci, economiche ed efficienti in relazione a tutte le circostanza del caso concreto. La Commissione europea, nella Comunicazione sul principio di precauzione, ha indicato i principi generali di una buona gestione dei rischi, sulla base dei quali vengono legittimamente adottate misure precauzionali, ponendo al primo posto la “proporzionalità”, quindi la “non discriminazione”, la “coerenza”, l’“esame dei vantaggi e degli oneri derivanti dall’azione o dalla mancata azione” e l’ “esame dell’evoluzione scientifica”. La proporzionalità è dunque un elemento essenziale dell’approccio precauzionale».

L’articolo 3-quater pone poi il principio dello sviluppo sostenibile. Sulla base di esso, ogni attività antropica deve garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non rischi di compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future. Importante è la precisazione in base alla quale anche l’attività della pubblica amministrazione debba essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile. Pertanto, nell’ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità, gli interessi alla tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione.

L’articolo 3-quinquies pone, infine, i principi di sussidiarietà e di leale collaborazione, destinati a incidere soprattutto sui rapporti dello Stato con le regioni e gli enti territoriali minori. Si prevede così, in termini generali, che i principi contenuti nel decreto costituiscano le condizioni minime ed essenziali per assicurare la tutela dell’ambiente su tutto il territorio nazionale. Le Regioni e le Province autonome possono, pertanto, adottare forme di tutela giuridica dell’ambiente più restrittive, qualora lo richiedano situazioni particolari del loro territorio; è, però, indispensabile, per la legittimità di questi interventi, che essi non comportino «un’arbitraria discriminazione, anche attraverso ingiustificati aggravi procedimentali».

I principi di tutela ambientale riconosciuti dal D.Lgs. n. 152/2006 risultano ora rafforzati anche per effetto della recentissima legge costituzionale 8 febbraio 2022, n. 1, che ha esplicitamente introdotto la tutela dell’ambiente negli artt. 9 e 41, Costituzione e i cui contenuti analizzeremo brevemente nell’ultimo paragrafo di questo capitolo introduttivo.

 

I RAPPORTI CON LE NORME EUROPEE E REGIONALI

Oltre a doversi coordinare con altre discipline nazionali, il testo unico ambientale deve necessariamente fare i conti con normative provenienti dall’Unione europea o dalle regioni. Quali regole disciplinano i rapporti fra queste fonti di diverso livello? La materia è troppo complessa per essere trattata in modo esaustivo in questa sede, ma alcune considerazioni sono necessarie. Iniziando dai rapporti con la normativa europea, appare fondamentale in questo ambito la previsione (art. 176 del trattato) secondo la quale le misure eventualmente approvate dagli stati membri in senso più restrittivo rispetto agli standard dell’Unione devono essere «compatibili» con il trattato; e ciò al fine di impedire che esse possano costituire uno strumento di discriminazione arbitraria o una restrizione dissimulata nel commercio all’interno della Comunità. 

Per quanto, invece, riguarda i rapporti fra nome nazionali e regionali, è fondamentale il testo dell’art. 117 della Costituzione, quale risulta dalla legge costituzionale n. 3/2001, secondo il quale lo Stato esercita una «competenza esclusiva» in materia di tutela dell’ambiente. È ben vero che – come valorizzato in alcune sentenze della Corte costituzionale, peraltro non fra loro uniformi e non sempre compatibili con gli indirizzi interpretativi del Consiglio di Stato – la presenza di materie di confine di competenza regionale (quali la tutela della salute o il governo del territorio) comporta la perdurante presenza di un significativo ruolo delle Regioni nella definizione delle norme ambientali; ruolo, del resto, ulteriormente valorizzato dal principio di leale cooperazione fra Stato e Regioni e dalle forme istituzionali di consultazione e confronto[10]Quali la conferenza Stato-Regioni  che l’attuazione di questo principio comporta. Ma la chiara affermazione costituzionale della competenza (esclusiva) statale per la tutela dell’ambiente oggi comporta – quanto meno – l’impossibilità di sostenere l’esistenza di un generale (e illimitato) principio costituzionale della «tutela più rigorosa del livello territoriale inferiore».

 

L’INTERPELLO IN MATERIA AMBIENTALE

Sulla scia di quanto previsto dalla normativa fiscale, ma con notevoli differenze, il D.L. 31 maggio 2021 n. 77, convertito con legge 29 luglio 2021 n. 108, ha introdotto anche nel settore ambientale una procedura diretta a interpellare il ministero della Transizione ecologica circa l’interpretazione di disposizioni ambientali. 

Il nuovo art. 3-septies del testo unico ambientale prevede, infatti, che una serie di soggetti possano richiedere chiarimenti interpretativi al ministero. Purtroppo, questa possibilità non è consentita a tutti, in quanto soggetti legittimati sono soltanto Regioni, Province autonome di Trento e Bolzano, Province, città metropolitane, Comuni, associazioni di categoria rappresentate nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e, infine, associazioni di protezione ambientale a carattere nazionale nonché quelle presenti in almeno cinque Regioni o Province autonome.

Questi soggetti possono, appunto, inoltrare al ministero istanze di ordine generale sull’applicazione della normativa statale in materia ambientale. La risposta alle istanze deve essere data entro novanta giorni dalla data della loro presentazione. 

Le indicazioni fornite nelle risposte (da pubblicare sul sito del ministero, senza rendere riconoscibili i soggetti interessati) costituiscono criteri interpretativi per l’esercizio delle attività di competenza delle pubbliche amministrazioni in materia ambientale, salva rettifica della soluzione interpretativa da parte dell’amministrazione con efficacia limitata ai comportamenti futuri dell’istante. 

Non sarà semplice coordinare l’applicazione della nuova disciplina dell’Interpello ambientale con le competenze tuttora attribuite dalla legge alle procure della Repubblica in sede di indagini e alla magistratura in sede giudicante. I magistrati, infatti, rimangono titolari, in sede penale, del potere di interpretazione. È evidente, peraltro, come il privato che si conformi alla risposta fornita dal ministero in sede di interpello possa, quanto meno, invocare anche in sede penale la propria buona fede.

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LA TUTELA AMBIENTALE NEGLI ARTT. 9 E 41 DELLA COSTITUZIONE

L’ambiente, la tutela degli animali e il clima sono entrati a pieno titolo nella Costituzione. È questo il frutto della legge di revisione costituzionale approvata in via definitiva dalla Camera l’8 febbraio 2022. 

Nella tabella 1 sono riportate le norme costituzionali interessate dalla riforma nel testo antecedente e successivo alla modifica.

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Nella sua formulazione testuale originaria, l’art. 9 della Costituzione aveva previsto la sola tutela del «paesaggio», oltre che del patrimonio storico e artistico della Nazione. La revisione costituzionale approvata recentemente modifica e integra l’art. 9 in tre punti.

In primo luogo, viene prevista anche la «la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi». Pur considerando l’ampiezza della nozione di ambiente, è significativo che la revisione costituzionale aggiunga espressamente un riferimento a «biodiversità» ed «ecosistemi». L’intenzione, evidentemente, è quella di offrire una particolare tutela ad ambiti che rendono il nostro territorio particolarmente ricco (gli «ecosistemi») e/o che appaiono in questa fase storica particolarmente vulnerabili (la «biodiversità»).

Nel complesso, la nuova tutela prevista dal rinnovato articolo 9 riprende nella sostanza i concetti espressi nella giurisprudenza costituzionale che, in precedenza, ragionava sul riferimento costituzionale al «paesaggio».

È, tuttavia, indubbio che l’inserimento esplicito del riferimento all’ambiente nell’art. 9 – e ancor più l’esplicita menzione di «biodiversità» ed «ecosistemi» – siano destinati a incidere sulla forza della tutela che verrà al riguardo accordata nei prossimi anni dalla Corte costituzionale. Si può agevolmente prevedere un significativo incremento delle ordinanze di rimessione alla Corte di leggi che verranno ritenute insufficienti rispetto alla necessaria protezione del bene ambiente, in particolare sotto il profilo della protezione di «biodiversità» ed «ecosistemi».

Un secondo aspetto della modifica all’art. 9 è quello in base al quale, in futuro, la protezione dell’ambiente (nonché di biodiversità ed ecosistemi) dovrà avvenire «anche nell’interesse delle future generazioni».

Questo aspetto, in generale del massimo rilievo, assume un’importanza davvero fondamentale per tutte le tematiche relative al cambiamento climatico.

Infatti, nel caso in cui l’azione di mitigazione delle emissioni e quella di adattamento ai mutamenti climatici non portino, nel complesso, a risultati soddisfacenti, le più drammatiche conseguenze negative del riscaldamento si scaricheranno sulle generazioni future. Invece, i comportamenti collettivi che stanno portando verso il riscaldamento sono attribuibili soprattutto all’attuale e alle precedenti generazioni, le quali hanno beneficiato delle emissioni di gas climalteranti. Ha parlato in termini inequivoci di questo tema, recentemente, la Corte costituzionale federale tedesca, che, con ordinanza del 24 marzo 2021, ha dichiarato la parziale illegittimità costituzionale della legge tedesca sul clima con riferimento all’obbligo di tutela previsto dall’articolo 20a della Costituzione federale. Questo articolo menziona espressamente la «responsabilità nei confronti di generazioni future» e obbliga lo Stato ad agire di conseguenza. La legge sopra citata è stata ritenuta non conforme alla Costituzione federale in quanto non prevedeva precise riduzioni delle emissioni di CO2 negli anni successivi al 2030. Simili, quanto ai diritti inalienabili delle generazioni future anche in una dimensione internazionale, sono le conclusioni raggiunte nel 2020 dalla Corte costituzionale ungherese, in un caso riguardante la tutela delle foreste.

La riforma costituzionale approvata nel febbraio 2022, dunque, avvicina il testo italiano a quello della Costituzione tedesca e lascia presagire un possibile futuro rilievo costituzionale del contenzioso “climatico” che potrebbe svilupparsi anche in Italia.

Va comunque osservato che la tutela delle generazioni future faceva già parte, seppure in modo assai meno esplicito di quanto oggi non sia grazie alla riforma, del complessivo panorama degli obblighi costituzionali. Basti richiamare al riguardo la sentenza della Corte n. 93/2017, relativa alla normativa sulle risorse idriche, nella quale è stata menzionata la necessità di salvaguardare «la vivibilità dell’ambiente e le aspettative e i diritti delle generazioni future a fruire di un integro patrimonio ambientale». Mentre in altre decisioni, sia pure relative a temi diversi da quello ambientale, è stato comunque espressamente menzionato «il principio di equità intragenerazionale che intergenerazionale» (sentenza n. 18/2019). 

Infine, l’art. 9 viene integrato attraverso un esplicito riferimento alla “tutela degli animali”, prevedendosi che debba essere una “legge dello Stato” a disciplinarne modi e forme. La legge ordinaria dovrà indicare le modalità di questa tutela. È, dunque, inevitabile nonché pienamente corrispondente alle più moderne indicazioni della scienza che il concetto di “benessere animale” divenga sempre più nel tempo – anche attraverso la legge che dovrà essere emanata – un fondamentale criterio costituzionale che il legislatore dovrà in ogni sede rispettare: ad esempio per quanto concerne la disciplina degli allevamenti intensivi.

Ciò naturalmente non significa affatto che la revisione costituzionale richieda o imponga allo Stato italiano di rinunciare alla sperimentazione animale. Già oggi la normativa nazionale sulla materia è fra le più severe e restrittive esistenti, per la forte attenzione appunto data al benessere animale. Tuttavia, il complesso delle norme costituzionali – che attribuiscono uno spazio fondamentale alla scienza e alla ricerca – sono incompatibili con una contrarietà di principio alla sperimentazione animale, che è ancora fondamentale per il progresso di scienza e medicina.

Le modifiche all’art. 41 riguardano, invece, i limiti da riconoscere alla «iniziativa economica privata» e alla «attività economica pubblica e privata», entrambe espressamente menzionate e riconosciute da questo articolo come in linea di principio “libere”.

Già prima della revisione costituzionale in esame, la prima non poteva «svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», mentre la seconda poteva «essere indirizzata e coordinata a fini sociali», attraverso «programmi e controlli opportuni» disposti dalla legge. Il nuovo testo dell’art. 41:

  • aggiunge salute e ambiente ai valori ai quali l’iniziativa economica privata non può recare danno;
  • aggiunge le finalità ambientali – oltre che quelle sociali – come tipiche dei programmi e controlli finalizzati ad indirizzare e coordinare l’attività economica pubblica e privata. 

 La riforma intende, evidentemente, recepire - e formalizzare espressamente nel testo della Carta - quegli orientamenti della giurisprudenza costituzionale che da tempo insistono sulla natura «primaria e assoluta» del valore ambientale nel disegno del Costituente (così già la sentenza della Corte costituzionale n. 617/1987). 

Tuttavia, si pone un problema e, di conseguenza, una riflessione, considerato che la Corte costituzionale ha sempre insistito anche sul necessario bilanciamento fra diversi e talora confliggenti interessi costituzionalmente rilevanti, ambiente e salute compresi. Tanto che, nella storica sentenza n. 85/2013, è arrivata ad affermare solennemente l’inesistenza, nel nostro ordinamento costituzionale, di “diritti tiranni”.

Occorreranno, pertanto, molta attenzione - anche lessicale - e molto equilibrio per attribuire alla riforma costituzionale il significato e il peso che merita, senza per questo cancellare l’affermazione della inesistenza di «diritti tiranni», che risponde, del resto, a un interesse fondamentale della Repubblica: quello di evitare che l’affermazione di un principio, anche della massima importanza, possa procedere nel disinteresse per gli “altri” diritti e interessi, anch’essi meritevoli di tutela.

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Note   [ + ]

1. In questo senso la giurisprudenza amministrativa ha sempre sostenuto che il principio di precauzione, di derivazione comunitaria (articolo 7, regolamento n. 178/2002), prevede che, quando sussistono incertezze o un ragionevole dubbio riguardo all’esistenza o alla portata di rischi per la salute delle persone, possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di questi rischi (si vedano le sentenze del Consiglio di Stato, sez. V, 24 maggio 2018, n. 3109; sez. IV, 8 febbraio 2018, n. 826; sez. IV, 27 febbraio 2017, n. 1392; sez. VI, 31 agosto 2016, n. 3767).
2. Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 13 novembre 1990, in causa C-331/88.
3. Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 22 novembre 2001, in causa C-110/97.
4. Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 5 febbraio 2004, in causa C-24/00.
5. Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 1° aprile 2004, in causa C-286/02 (esattamente considerata espressione di un orientamento rigoroso nella tutela della salute).
6. Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 2 dicembre 2004, in causa C-41/02.
7. Sentenza della Corte di giustizia delle Comunità europee 12 gennaio 2006, in causa C-504/04.
8. Così espressamente la sentenza del Consiglio di Stato, sez. VI, 11 novembre 2003 n. 7993.
9. Sentenza del Consiglio di Stato, sez. V, 9 settembre 2005, n. 4648.
10. Quali la conferenza Stato-Regioni

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