L’obbligo di bonifica per la società incorporante

La sentenza dell'Adunanza plenaria del Consiglio di Stato 22 ottobre 2019, n. 10 è intervenuta in risposta all’ordinanza di rimessione n. 2928/2019, con la quale la quarta sezione del Consiglio di Stato aveva posto alcuni quesiti in merito al rapporto tra discipline sull’inquinamento ambientale e quella più recente sul ripristino e sul trasferimento dei relativi obblighi e le responsabilità per effetto di fusione

Premessa

Con la sentenza 22 ottobre 2019, n. 10, l’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha confermato l’orientamento secondo il quale la società incorporante è obbligata a eseguire la bonifica per rimediare inquinamento causato dall’incorporata, affermando il seguente principio di diritto: «la bonifica del sito inquinato può essere ordinata anche a carico di una società non responsabile dell’inquinamento, ma che sia ad essa subentrata per effetto di fusione per incorporazione, nel regime previgente alla riforma del diritto societario, e per condotte antecedenti a quando la bonifica è stata introdotta nell’ordinamento giuridico, i cui effetti dannosi permangano al momento dell’adozione del provvedimento».

L’ordinanza di rimessione

La sentenza è stata pronunciata a seguito di ordinanza di rimessione n. 2928/2019 della quarta sezione del Consiglio di Stato con la quale era stato chiesto di:

  • verificare se un inquinamento ambientale realizzato prima che nell’ordinamento giuridico fosse introdotta la disciplina sulla bonifica dei siti inquinati, sia da qualificare come illecito, fonte di responsabilità civile per il suo autore, e in quale fattispecie normativa di quest’ultimo istituto il fatto vada inquadrato;
  • in caso di risposta positiva, definire i rapporti tra la figura di illecito così individuato e la bonifica e pertanto se, pur essendo incontestata la discontinuità normativa tra i due istituti, sia, ciò nonostante, possibile ordinare la bonifica per fatti risalenti a epoca antecedente alla sua introduzione nell’ordinamento;
  • infine, ammessa l’ipotesi positiva anche per il secondo punto, chiarire se gli obblighi e le responsabilità conseguenti alla commissione dell’illecito siano trasmissibili per effetto di operazioni societarie straordinarie quale la fusione, secondo la legislazione civilistica a quell’epoca vigente.
Sul primo quesito

L’Adunanza risponde in senso affermativo al primo quesito: anche prima dell’entrata in vigore del “decreto Ronchi” (1997) il danno all’ambiente costituiva un illecito civile previsto dall’art. 2043, codice civile.

Richiamando la fondamentale sentenza della Corte costituzionale 31 dicembre 1987, n. 641, l’Adunanza plenaria pone l’accento sulla funzione riparatoria dell’illecito ambientale che non è circoscritta alla sola differenza di valore del bene leso rispetto a quello che aveva prima del danno (schema proprio del tipico illecito civile), ma si estende a tutti i costi necessari per ripristinare il complessivo pregiudizio inferto all’ecosistema naturale; di conseguenza «il danno all’ambiente risarcibile ai sensi dell’art. 18 l. n. 349 del 1986, anche attraverso una somma di denaro, assume pertanto i connotati della reintegrazione in forma specifica ex art. 2058 cod. civ. (in questi termini è la costante giurisprudenza di legittimità: cfr. Cass. civ., I, 3 luglio 1997, n. 5993; III, ord. 21 novembre 2017, n. 27546)»[1]La differenza tra il risarcimento ex art. 2058, codice civile e il ripristino di cui all’art. 18, legge n. 349/1986 viene così chiarita dalla sentenza: «Tuttavia, rispetto al rimedio di carattere generale previsto da quest’ultima disposizione, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile previsto dal sopra citato comma 8 del medesimo art. 18 della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente non soggiace al limite dell’eccessiva onerosità, ma solo a quello della possibilità, per cui sotto questo profilo la tutela dell’ambiente è rafforzata rispetto agli ordinari strumenti dell’illecito civile»..

In buona sostanza, dunque, nel periodo compreso tra gli anni Cinquanta e la prima metà degli Ottanta, lo Stato avrebbe potuto/dovuto agire per il risarcimento del danno all’ambiente ai sensi dell’art. 2043 e ordinando, in caso di inquinamento di una matrice, il risarcimento in forma specifica ai sensi dell’art. 2058.

Il fatto che sia arduo reperire, in questo arco di tempo, sentenze di condanna al risarcimento del danno all’ambiente fondate sull’art. 2043 del codice civile, non smentisce l’affermazione. La mancanza di pronunce è spiegabile, ad esempio, con l’assenza di una normativa ambientale specifica che avrebbe consentito di immediatamente individuare una condotta contra legem e con la limitata (o assente) consapevolezza, anche scientifica, in merito agli effetti che determinati comportamenti avrebbero potuto produrre sull’ambiente. 

Sul secondo quesito

Quanto al rapporto tra la normativa speciale e generale, la sentenza osserva che «le (pur innegabili) differenze strutturali tra le due norme sono conseguenti non già all’introduzione di un nuovo fatto illecito, offensivo di un bene in precedenza non ritenuto meritevole di protezione ai sensi dell’art. 2043 cod. civ., ma all’esigenza di rafforzare la tutela del bene ambiente, già oggetto di protezione legislativa con il rimedio previsto da quest’ultima disposizione e con la specifica disposizione dell’art. 18 della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente».

In definitiva, secondo l’Adunanza plenaria, tanto «le misure introdotte con il decreto legislativo n. 22 del 1997, poi trasfuse nel codice dell’ambiente attualmente vigente, quanto il rimedio del risarcimento del danno già riconosciuto sulla base dell’art. 2043 cod. civ., e poi con la legge n. 349 del 1986, hanno la medesima funzione («ripristinatoria-reintegratoria») di protezione dell’ambiente».

L’affermazione è incontestabile. Guardando all’evoluzione del diritto dell’ambiente, anche in un quadro internazionale, non si può non cogliere il costante rafforzamento della tutela; basta solo considerare la progressione dal principio “chi inquina paga”, a quello di “prevenzione e, infine, al più recente “principio di precauzione”, quale forma di massima attenzione e protezione.

A questo rafforzamento l’Adunanza àncora il concetto di continuità e ammette le innegabili differenze strutturali tra le diverse norme, differenze che incidono sull’elemento soggettivo (la colpa da valutare alla luce delle norme e delle conoscenze dell’epoca) e sulla giurisdizione, civile nelle norme codicistiche e amministrativa quanto alla reazione all’ordine di bonifica.

Pertanto, se da un lato vi è indubbia continuità, dall’altro le rilevanti differenze avrebbero potuto consentire di riaffermare innanzitutto l’impossibilità di applicare le disposizioni generali del codice civile e al contempo quelle speciali (come affermato da diversa giurisprudenza; vedere il box 1). Sarebbe stato, inoltre, possibile rimarcare il principio tempus regit actum per applicare a ogni fatto di inquinamento la normativa vigente all’epoca in cui fu commesso (vedere, in questo senso, Tar Brescia sentenza n. 802/2018). Esemplificando:

  • un inquinamento provocato in epoca successiva all’aprile 2006 resta certamente sottoposto alla disciplina sulla bonifica e sul risarcimento prevista alle parti IV e VI, D.Lgs. n. 152/2006;
  • uno compreso tra il 1997 e il 2006 può far nascere l’obbligo di bonifica regolato dal D.M. n. 471/1999 e soggiacere, quanto al risarcimento del danno, alla legge n. 349/1986;
  • un danno arrecato all’ambiente tra il 1986 e il 1997 andrebbe sottoposto esclusivamente alla legge n. 349/1986;
  • infine, solo i fatti commessi ante 1986 dovrebbero essere giudicati alla luce delle norme del codice civile.

 

Box 1

Codice civile e disposizioni speciali: cosa dice la giurisprudenza

Secondo il Tar Catania (sentenza n. 1254/2007) l’applicazione al campo della responsabilità per danno ambientale delle norme di responsabilità presunta stabilite dal codice civile trova ostacolo nel principio di specialità e ciò in quanto a fronte di più disposizioni (apparentemente) concorrenti nella stessa fattispecie (quelle del codice civile e le norme previste dalla parte sesta del D. Lgs. n. 152/2006), il criterio di specialità porta certamente ad applicare solo ed esclusivamente le disposizioni esaustivamente dettate dalla normativa ambientale, così come oggi chiarite dal D. Lgs. n. 152/2006.

Un anno più tardi il Consiglio di Stato (sentenza n. 6055/2008) ha confermato che la specifica disciplina in materia ambientale e le norme di cui agli artt. 2043, 2050 e 2051 del codice civile hanno requisiti e producono effetti tra di loro diversificati essendo diversi la natura e il contenuto delle situazioni giuridiche passive scaturenti dalle due previsioni.

Anche l’ordinanza n. 21/2013 dell’adunanza plenaria del Consiglio di Stato ha osservato che i precisi criteri di imputazione degli obblighi di Mise e di bonifica previsti dagli articoli 240 e seguenti, D.Lgs. n. 152/2006 «dettano una disciplina esaustiva della materia, non integrabile dalla sovrapposizione di una normativa (quella del codice civile, appunto) ispirata a ben diverse esigenze».

Nello stesso senso il Tar Toscana (sentenza n. 541/2017) secondo il quale il D.Lgs. n. 152/2006 rappresenta una «disciplina esaustiva della problematica che non può certo essere integrata dalla sovrapposizione di principi (come quello previsto dall’art. 2051 c.c.) desunti da diversa normativa e che determinerebbero la sostanziale alterazione di un contenuto normativo improntato a ben diversi principi» (vedere anche le sentenze del Consiglio di Stato n. 6138/2017 e del Tar Toscana n. 291/2018).

In ambito civile, la Corte di Cassazione (sentenza n. 1573/2019) ha affermato che «non trova applicazione la regola della responsabilità solidale di cui all’art. 2055 c.c. nel caso dell’obbligazione del responsabile dell’inquinamento avente ad oggetto il rimborso delle spese sostenute dal proprietario per la bonifica spontanea del sito inquinato poiché trattasi di obbligazione ex lege, di contenuto non risarcitorio ma indennitario, derivante non da fatto illecito ma dal fatto obiettivo dell’inquinamento».

L’Adunanza però, dopo aver riconosciuto la anzidetta “continuità rafforzata, si è mossa direttamente sul tema della prescrizione del diritto al risarcimento, affermando la natura di illecito permanente del danno all’ambiente, nei seguenti termini: «Il rilievo ora svolto consente di lumeggiare il carattere permanente del danno ambientale, perdurante cioè fintanto che persista l’inquinamento (secondo la pacifica giurisprudenza di legittimità, da ultimo ribadita da Cass. civ., III, 19 febbraio 2016, n. 3259, 6 maggio 2015, n. 9012; nel medesimo senso può essere richiamata la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, tra cui si segnala la sentenza della VI Sezione del 23 giugno 2014, n. 3165)».

Deve essere, peraltro, ricordata anche la giurisprudenza di segno opposto, in particolare la sentenza della Cassazione civile n. 9711/2013 che aveva, invece, affermato la natura di illecito istantaneo del danno ambientale (che conduce a conclusioni diverse in termini di prescrizione) sostenuta anche da autorevole dottrina secondo la quale «La permanenza come qualità ulteriore di uno degli elementi dell’illecito aquiliano va riferita al fatto anziché al danno. Invero, ogni danno si può considerare permanente, poiché resta fino a che non sia rimosso con il risarcimento. Semmai vi possono essere casi di “fatto illecito istantaneo ad effetti permanenti” […] Così è ancora nell’arbitrario deposito di detriti su terreno altrui da parte di appaltatore “poiché in esso il comportamento contra ius dell’agente si esaurisce con il verificarsi dell’evento dannoso, pur se l’esistenza di questo si protragga poi autonomamente con i suoi effetti lesivi”. Tale è anche il danno all’ambiente»[2]M. Franzoni L’illecito, Trattato della Responsabilità Civile, Giuffrè, pagg. 52-53..

Senza pretesa di esaustività su una questione così complessa, si può annotare che la predicata natura permanente dell’illecito all’ambiente potrebbe non conciliarsi con l’art. 303, comma 1, lettera g), D.Lgs. n.152/2006 che esclude l’applicabilità della disciplina «al danno in relazione al quale siano trascorsi più di trent'anni dall’emissione, dall’evento o dall’incidente che l’hanno causato». In altre parole, la normativa di derivazione comunitaria, nell’identificare tre diversi dies a quo (dall’emissione, dall’evento o dall’incidente), ammette ciò che nell’esperienza pratica è pacifico, vale a dire la possibilità che il danno all’ambiente abbia diversa natura. Tanto che se è vero che risulta possibile avere un’emissione che ancora permane a distanza di anni dall’evento che l’ha provocata, è vero anche che vi sono anche casi in cui l’emissione (o la sua permanenza) è cessata in un momento identificabile, così come si possono avere situazioni dove non vi sia traccia alcuna dell’emissione e nemmeno si riesce a risalire al momento in cui la stessa è venuta meno. Si può così comprendere la ragione sottesa al diverso dies a quo previsto dalla normativa vigente che conta i trent’anni da quando l’emissione è cessata o, se il dato non è disponibile, dall’evento/incidente che l’ha provocata.

Ciò rende ragionevole affermare che una qualifica caso per caso consentirebbe di inquadrare meglio la natura dell’illecito, essendo evidente, come detto, che l’ambiente può essere danneggiato in modi diversi e con diversi effetti, anche in termini di rimediabilità, a volte praticabile e a volte impossibile (basti pensare a un’emissione in atmosfera o a uno scarico i cui effetti, poco dopo, non siano più né percettibili né misurabili).

Sul terzo quesito

L’Adunanza, in risposta al terzo quesito, afferma che è certamente possibile il subentro: «allorché la situazione di danno all’ambiente si protragga in un arco di tempo in cui per effetto della successione di norme di legge al rimedio risarcitorio si aggiunga quello della bonifica, nessun ostacolo di ordine giuridico è ravvisabile ad applicare quest’ultima ad un soggetto che, pur non avendo commesso la condotta fonte del danno, sia nondimeno subentrato a quest’ultimo».

Deve essere ricordato che anche sulla trasmissibilità dell’obbligo di bonifica a seguito di fusione la giurisprudenza era divisa. Secondo il Tar Milano (sentenza n. 1913/2007) questo trasferimento era inammissibile per due ragioni:

  • la prima faceva leva sulla normativa vigente all’epoca (il tema del primo quesito);
  • la seconda era legata invece all’estinzione del soggetto incorporato e alla conseguente insostenibile scomposizione dell’illecito, vale a dire l’aver inquinato da un lato e il non bonificare dall’altro.

In appello, anche il Consiglio di Stato (sentenza n. 6055/2008) ha confermato l’inapplicabilità del “decreto Ronchi” a società estinte prima della sua entrata in vigore. Di diverso avviso è stato, invece, il Tar Toscana (sentenza n. 573/2001) che aveva ammesso il trasferimento dell’obbligo a patto che l’incorporazione fossa avvenuta dopo il 1982, anno di entrata in vigore del D.P.R. n. 915/1982, prima legge quadro in materia di rifiuti[3]«La pur riconosciuta diversità di regime giuridico e, per conseguenza, la mancanza di continuità normativa tra gli artt. 2043, 2050 e 2058 c.c., da un lato, e l’art. 17 del c.d. decreto Ronchi, dall’altro, non impedisce di applicare il comando contenuto nel medesimo art. 17 a soggetti estintisi prima del 1997 ad al successore universale di tali soggetti, in forza del nesso di nesso di continuità normativa esistente tra gli artt. 17 e 51-bis del D.Lgs. n. 22 cit. e l’art. 32, secondo comma, del D.P.R. n. 915/1982».. Anche il Tar Veneto (sentenza n. 255/2014) ha riconosciuto il trasferimento dell’obbligo di bonifica sulla società incorporante anche per le fusioni intervenute prima della riforma del diritto societario del 2003[4]Secondo il Tar Veneto sull’incorporante grava «un obbligo di bonifica e ripristino ambientale di contenuto corrispondente a quello che sarebbe spettato alla società incorporata se non si fosse estinta».. Nello stesso senso il Tar Piemonte n. 674/2016 che, con ragionamento a contrario, ha ravvisato nel principio opposto «un agevole espediente per consentire all’organismo societario colpevole di una contaminazione di liberarsi dagli obblighi di bonifica semplicemente mediante un’operazione di fusione societaria, in questo modo davvero giungendo ad un inaccettabile e surrettizio aggiramento del principio “chi inquina paga”».

Pertanto, rispondendo all’ultimo quesito l’Adunanza plenaria, condividendo la giurisprudenza più recente, ha affermato la trasmissibilità dell’obbligo di bonifica anche alle fusioni avvenute prima del 2003, posto che il testo dell’art. 2504-bis del codice civile, nella versione antecedente alla riforma, già includeva «espressamente nella vicenda traslativa in questione “gli obblighi delle società estinte”, ovvero di quelle incorporate (analoga formulazione reca peraltro la medesima disposizione dopo la riforma del diritto societario […]. Con la sola differenza che in luogo delle società estinte si fa riferimento alle “società partecipanti alla fusione” e al fatto che in tutti i rapporti giuridici di queste ultime, anche quelli processuali, vi è una “prosecuzione” dell’incorporante). Con riguardo al previgente regime, nel senso che negli obblighi dell’incorporata di cui l’incorporante diviene l’unico obbligato a seguito di fusione rientrano anche quelli derivanti da responsabilità civile si è espressa la Cassazione (Sezione III civile, sentenza 11 novembre 2015, n. 22998, in un caso di responsabilità da cose in custodia ex art. 2051 cod. civ.).»

L’Adunanza plenaria ha rafforzato l’assunto precisando che «la successione dell’incorporante negli obblighi dell’incorporata è espressione del principio espresso dal brocardo cuius commoda eius et incommoda, cui è informata la disciplina delle operazioni societarie straordinarie, tra cui la fusione, anche prima della riforma del diritto societario, per cui alla successione di soggetti sul piano giuridico-formale si contrappone nondimeno sul piano economico-sostanziale una continuazione dell’originaria impresa e della sottostante organizzazione aziendale. Anche prima che venisse sancito il carattere evolutivo-modificativo di quest’ultimo tipo di operazione era infatti indubbio che l’ente societario subentrato a quello estintosi per effetto dell’incorporazione acquisiva il patrimonio aziendale di quest’ultimo, di cui sul piano contabile fanno parte anche le passività, ovvero i debiti inerenti all’impresa esercitata attraverso la società incorporata».

La sentenza si conclude con il principio di diritto anticipato in premessa.

Conclusioni

Difficile pensare che il contenzioso verrà meno se si considera che la recente sentenza della Cassazione civile - richiamata nel box 1 - negando la natura risarcitoria dell’obbligo di bonifica, potrebbe intaccare l’assunto di base del ragionamento dell’adunanza plenaria.

Note   [ + ]

1. La differenza tra il risarcimento ex art. 2058, codice civile e il ripristino di cui all’art. 18, legge n. 349/1986 viene così chiarita dalla sentenza: «Tuttavia, rispetto al rimedio di carattere generale previsto da quest’ultima disposizione, il ripristino dello stato dei luoghi a spese del responsabile previsto dal sopra citato comma 8 del medesimo art. 18 della legge istitutiva del Ministero dell’ambiente non soggiace al limite dell’eccessiva onerosità, ma solo a quello della possibilità, per cui sotto questo profilo la tutela dell’ambiente è rafforzata rispetto agli ordinari strumenti dell’illecito civile».
2. M. Franzoni L’illecito, Trattato della Responsabilità Civile, Giuffrè, pagg. 52-53.
3. «La pur riconosciuta diversità di regime giuridico e, per conseguenza, la mancanza di continuità normativa tra gli artt. 2043, 2050 e 2058 c.c., da un lato, e l’art. 17 del c.d. decreto Ronchi, dall’altro, non impedisce di applicare il comando contenuto nel medesimo art. 17 a soggetti estintisi prima del 1997 ad al successore universale di tali soggetti, in forza del nesso di nesso di continuità normativa esistente tra gli artt. 17 e 51-bis del D.Lgs. n. 22 cit. e l’art. 32, secondo comma, del D.P.R. n. 915/1982».
4. Secondo il Tar Veneto sull’incorporante grava «un obbligo di bonifica e ripristino ambientale di contenuto corrispondente a quello che sarebbe spettato alla società incorporata se non si fosse estinta».

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