(Valorizzare il sottoprodotto: le quattro regole base)
È noto che per implementare l’economia circolare nella gestione dei rifiuti occorra, in massima sintesi, rispettare la gerarchia di cui all’art. 179, D.Lgs. n. 152/2006, vale a dire, in quest’ordine:
1) prevenire ovvero ridurre il più possibile la quantità di rifiuti prodotti (il che rileva per i residui di produzione);
2) dare nuova vita ai beni usati preparandoli in modo tale da farli tornare al loro originario utilizzo (il che rileva per i residui di consumo;
3) sottoporre i rifiuti a operazioni di recupero, così da reimpiegare la materia ottenuta (end of waste) per scopi e utilizzi diversi da quelli che avevano in origine (rilevante per i residui sia di produzione che di consumo).
All’interno di questi criteri di priorità il sottoprodotto, benché non sia menzionato in modo espresso, è pacifico che occupi il primo posto, ossia quello della prevenzione che significa – come detto – produrre meno rifiuti. Vero è che un’azienda, la quale volesse abbattere alla fonte la produzione dei rifiuti, avrebbe una sola strada: valorizzare i residui che rispondono alla qualifica di sottoprodotti per gestirli come tali. È questa, infatti, la direzione in cui si stanno muovendo diverse imprese che, anche nel rispetto degli indicatori Esg, concepiscono la valorizzazione del sottoprodotto come un dovere piuttosto che una facoltà.
C’è però un rischio. Diverse norme sui rifiuti contenute nel D.Lgs. n. 152/2006 sono ispirate dalla intenzione del legislatore di fare in modo che la loro gestione avvenga senza pericolo per la salute e per l’ambiente; ciò vuole dire, prima di tutto, ampliare il novero dei residui qualificati come rifiuti, per garantirne la massima tracciabilità e la conseguente gestione controllata che è loro tipica. Questa è stata esattamente l’ispirazione - e al contempo l’obiettivo - alla base (ancora oggi) dell’architettura normativa europea sui rifiuti, nella quale la nozione di sottoprodotto si è negli anni fatta largo, dapprima nelle aule di giustizia poi nel testo di legge, ma sempre e solo come una eccezione alla regola generale del “tutto è rifiuto”.
Oggi va preso atto che il contesto di fondo è cambiato perché l’emergente necessità di realizzare, in concreto non a parole, l’economia circolare impone di ripensare priorità e obiettivi, finanche trasformando l’eccezione in regola. Ciò è senz’altro possibile; tuttavia, in assenza di norme nuove e chiare in questa direzione, confidare che il tutto avvenga grazie a un mutamento di indirizzo della giurisprudenza e degli enti di controllo appare eccessivamente ottimistico.
Da qui la necessità di continuare muoversi, in questo ambito, con estrema cautela, atteso il rigore con il quale la prevalente giurisprudenza guarda a questo concetto e alle quattro condizioni che lo qualificano. Vediamole nel dettaglio.
La prima condizione: il processo di produzione e il “residuo”
Ai sensi dell’articolo 184-bis, comma 1, lettera a), D.Lgs. n. 152/2006, la sostanza o l’oggetto che si intende qualificare come sottoprodotto deve, in primo luogo, essere originata da un processo di produzione, di cui costituisce parte integrante e il cui scopo primario non è la produzione di questa sostanza od oggetto.
La sussistenza di questa condizione è, in molti casi, di semplice individuazione. Un esempio per tutti, lo sfrido di lavorazione di materiali metallici nell’ambito di processi produttivi di beni in metallo. In questo caso, infatti, si ha un’attività condotta sulla materia prima in ingresso nell’ambito di un processo di produzione industriale da cui origina il residuo che si intende qualificare come sottoprodotto, parte integrante del ciclo produttivo (ma, senza dubbio, non l’obiettivo finale di produzione). La prassi, tuttavia, è sovente più complessa.
La prima criticità consiste nell’individuare i limiti che connotano il processo di produzione. Un importante contributo è fornito dalla circolare ministeriale n. 7619/2017, che ha chiarito come possano considerarsi parte del «processo di produzione» - sia esso di beni o servizi - non solo i processi tecnologici di fabbricazione del prodotto, ma anche i «processi di supporto all’attività di trasformazione, come manutenzione, controllo di processo, gestione della qualità, movimentazione dei materiali, ecc.». Dunque, anche attività accessorie al processo produttivo potranno originare sottoprodotti. Ovviamente, il prodotto dovrà “trarre origine”, quindi provenire direttamente dal processo di produzione (seppure finalizzato alla realizzazione di qualcosa di diverso ottenuto attraverso la lavorazione o la trasformazione di altri materiali[1]Vedere Cassazione penale, 1° luglio 2015, n. 33028.).
D’altro canto, la giurisprudenza[2]Vedere Cassazione penale, 23 febbraio 2018, n. 8848. ha escluso – per mancanza del requisito di cui si tratta – la possibilità di generare sottoprodotti nell’ambito di un intervento di demolizione in quanto non rientrante nel concetto di ciclo di produzione. Laddove, dunque, un vero e proprio ciclo produttivo non vi sia, la valutazione sulla possibilità di generare sottoprodotti potrebbe presentare criticità.
Altro profilo di rilievo, e parimenti di non agevole individuazione, è lo “scopo” del processo produttivo. La tematica ha assunto particolare rilievo a esito dell’entrata in vigore del D.M. n. 264/2016 che ha chiaramente distinto il sottoprodotto dal prodotto, inteso come «ogni materiale o sostanza che è ottenuto deliberatamente nell’ambito di un processo di produzione o risultato di una scelta tecnica» [art. 2, comma 1, lettera a), D.M. n. 264/2016). La già citata circolare ministeriale n. 7619/2017 ha chiarito che «se il fabbricante ha scelto deliberatamente di produrre il materiale – magari anche modificando appositamente il processo di produzione – esso va considerato un prodotto e non un residuo». In altre parole, se il fabbricante può produrre il prodotto principale senza generare il residuo, ma decide comunque di farlo, è evidente che, in base alle indicazioni contenute del decreto ministeriale, questo materiale non potrà considerarsi un sottoprodotto ma – ove abbia i requisiti di produzione – costituirà anch’esso prodotto del processo industriale (e ove anomalo, non potrà che costituire scarto, quindi rifiuto). Sottoprodotto sarà dunque il bene originatosi come conseguenza tecnico-produttiva “accidentale” (seppure necessaria) del ciclo produttivo. Proprio in questo senso, la citata circolare contempla, tra le informazioni da scambiare sul sottoprodotto:
- «Descrizione e caratteristiche del processo di produzione»;
- «Indicazione dei materiali in uscita dal processo di produzione»;
- «Tipologia e caratteristiche del sottoprodotto e modalità di produzione».
Nell’ambito di una valutazione preventiva circa la possibile qualifica di un residuo come sottoprodotto, la valutazione circa la sussistenza del primo requisito, attinente al ciclo di produzione ed al tipo di residuo generato, è dunque prioritaria in quanto dirimente per poter continuare – o meno – a ragionare della caratteristica di sottoprodotto del materiale attenzionato.
La seconda condizione: la certezza dell’utilizzo
La seconda condizione per aversi sottoprodotto riguarda la certezza del riutilizzo del residuo nello stesso e/o in un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di soggetti terzi.
La certezza va dimostrata e, nel farlo, non si può fare riferimento a una riutilizzabilità in astratto, posto che l’avvenuta destinazione a riutilizzo deve essere verificata in concreto. In questi termini, come purtroppo spesso avviene, non bastano affermazioni dell’interessato o generiche intenzioni, ma è necessario fornire una prova obiettiva, univoca e completa, come suggerito dalla giurisprudenza[3]Vedere Cassazione penale 27 febbraio 2007, n. 8050..
È certamente critico individuare le più idonee modalità di prova della certezza. Gli strumenti ovviamente variano a seconda che il residuo sia destinato a essere riutilizzato nel medesimo ciclo produttivo, ovvero ceduto a terzi. Nel primo caso è importante porsi un quesito in ordine alla documentazione gestionale che potrebbe essere utilizzata per dare la prova dell’utilità del residuo nel processo che lo ha prodotto. Attenzione va prestata anche ai titoli autorizzativi che spesso legittimano un’attività produttiva e nei quali si possono trovare elementi per provare le modalità di valorizzazione del residuo. Allo stesso modo, qualora l’impresa sia organizzata con sistemi gestionali informatizzati, potrebbe sfruttarli per reperire le informazioni utili per provare la certezza del riutilizzo. Critico può poi essere il tema delle quantità di residuo disponibile e quelle che l’impianto è idoneo a valorizzare. È infatti evidente che un surplus di residuo potrebbe far venire meno la certezza del riutilizzo e, con essa, la qualifica di sottoprodotto. Se l’attività di raccolta delle prove non dovesse risultare efficace, la certezza dell’utilizzo potrebbe essere dimostrata predisponendo la scheda tecnica di cui all’allegato 2 al D.M. n. 264/2016.
Molto diversa, invece, la raccolta delle prove in caso di cessione a terzi del sottoprodotto. In questo caso il problema è spesso costituito dalla necessità di fare comprendere all’utilizzatore del residuo che è anche nel suo interesse dimostrare la sussistenza delle quattro condizioni. Spetta, infatti, sia al produttore che all’utilizzatore assicurare, ciascuno per quanto di propria competenza, che vi è organizzazione e continuità di un sistema di gestione che consenta l’identificazione e l’utilizzazione effettiva del sottoprodotto.
Il D.M. n. 264/2016 chiarisce che la certezza dell’utilizzo di un residuo in un ciclo di produzione diverso da quello da cui è originato «presuppone che l’attività o l’impianto in cui il residuo deve essere utilizzato sia individuato o individuabile già al momento della produzione dello stesso» (art. 5, comma 3). A questo fine potrebbe essere utile conformarsi alle indicazioni contenute nella circolare ministeriale n. 7619/2017, dove è precisato che la sussistenza della seconda condizione può essere dimostrata con strumenti probatori quali la documentazione contrattuale, l’esistenza di un guadagno economico e di un mercato del residuo.
Tema strettamente correlato alla certezza del riutilizzo è quello dell’eventuale deposito del residuo, che può avvenire nel sito di produzione o, in caso di valorizzazione da parte di terzi, nello stabilimento di questi ultimi. Per la circolare del 2017 deve essere esclusa la possibilità di allestire depositi di sottoprodotti a tempo indeterminato. Va, pertanto, prestata molta attenzione al tempo massimo di deposito, che potrebbe essere opportuno definire in via preliminare alla produzione del sottoprodotto e sulla base delle caratteristiche dello stesso. Come ricordato nella circolare, infatti, «da un lato, un lungo tempo di deposito rende, proprio in ragione dell’incertezza legata al mero scorrere del tempo, meno certo l’utilizzo (in tema, cfr. a contrario Cons. stato, sent. n. 4151/2013, secondo cui depongono nel senso della sussistenza del requisito della certezza il tempo ravvicinato dell’utilizzo e la non necessarietà di operazioni di stoccaggio). Dall’altro lato, l’adeguatezza del tempo di deposito va valutata con riguardo a diversi altri fattori, quali le caratteristiche del residuo, le modalità di conservazione dello stesso, le caratteristiche che esso deve avere per la successiva utilizzazione». Lo stesso si può dire per le modalità di raccolta del sottoprodotto che dovranno essere sempre coerenti con la successiva utilizzazione nel processo produttivo (di origine o di terzi).
La terza condizione: la normale pratica industriale
Ai sensi dell’art. 184-bis, comma 1, lettera c), il sottoprodotto, per essere tale, deve poter essere utilizzato direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale. È il criterio più controverso, rispetto al quale, negli ultimi anni, vi è stato un contrasto giurisprudenziale ancora irrisolto.
Con la sentenza n. 17453/2012 la Cassazione penale ha affrontato per la prima volta questa nozione, adottando un’interpretazione restrittiva del concetto e sostenendo che l’espressione normale pratica industriale non poteva certamente comprendere «attività comportanti trasformazioni radicali del materiale trattato che ne stravolgano l’originaria natura», ma nemmeno quelle «operazioni di minor impatto sul residuo, che altra dottrina definisce “minimali”, individuabili in operazioni quali la cernita, la vagliatura, la frantumazione o la macinazione», le quali «ne determinano una modificazione dell’originaria consistenza, rientrando in tale concetto». A questo primo orientamento si è contrapposta la pronuncia n. 40109/2015, con la quale la Cassazione ha affermato che ai fini della qualifica come sottoprodotto rientrano nella nozione di normale pratica industriale: «tutti quei trattamenti o interventi (non di trasformazione o di recupero completo) i quali non incidono o fanno perdere al materiale la sua identità e le caratteristiche merceologiche e di qualità ambientale che esso già possiede — come prodotto industriale (all'esito del processo di lavorazione della materia prima) o come sottoprodotto (fin dalla sua origine, in quanto residuo produttivo) — ma che si rendono utili o funzionali per il suo ulteriore e specifico utilizzo, presso il produttore o presso altri utilizzatori (anche in altro luogo e in distinto processo produttivo), come le operazioni: di lavaggio, essiccazione, selezione, cernita, vagliatura, macinazione, frantumazione, ecc.». Successivamente, la Cassazione ha chiarito che le attività di normale pratica industriale sono «interventi eseguiti sui sottoprodotti non necessitanti di complesse infrastrutture operative né, comunque, tali da comportare la successiva necessità di procedere, in esito al loro svolgimento, allo smaltimento di copiose quantità di ulteriori materiali ad esse residuati» (Cassazione penale n. 41533/2017).
Il tema, come detto, è e resta controverso. È chiaro che la Cassazione del 2012 ha fornito un’interpretazione della nozione di normale pratica industriale che punta a garantire una maggiore tutela per l’ambiente. Tuttavia, come detto in premessa, considerato l’attuale momento storico che vuole garantire una effettiva transizione verso la circular economy, è necessario mutare prospettiva e incentivare la qualifica dei residui come sottoprodotti.
A livello regolamentare, l’art. 6, D.M. n. 264/2016 dispone che «rientrano, in ogni caso, nella normale pratica industriale le attività e le operazioni che costituiscono parte integrante del ciclo di produzione del residuo» e che «non costituiscono normale pratica industriale i processi e le operazioni necessari per rendere le caratteristiche ambientali della sostanza o dell’oggetto idonee a soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e a non portare a impatti complessivi negativi sull’ambiente, salvo il caso in cui siano effettuate nel medesimo ciclo produttivo». Vi sono poi alcuni altri esempi di prassi regolamentare che sembrano estendere l’ambito di operatività del concetto (D.P.R. n. 120/2017, D.M. n. 264/2016, norma UNI 10667-2017).
Come affermato nella circolare n. 7619/2017, per dimostrare la riconducibilità dell’operazione alla normale pratica industriale l’operatore potrebbe dimostrare, ad esempio, che il trattamento:
- non incide o non fa perdere al materiale la sua identità, le caratteristiche merceologiche, o la qualità ambientale,
- non determina un mutamento strutturale delle componenti chimico-fisiche della sostanza o una sua trasformazione radicale
- oppure corrisponde a quelli ordinariamente effettuati nel processo produttivo nel quale il materiale viene utilizzato e in particolare a quelli ordinariamente effettuati sulla materia prima che il sottoprodotto va a sostituire.
La quarta condizione: legalità dell’utilizzo e assenza di impatti negativi
Infine, l’art. 184-bis, comma 1, lettera d), D.Lgs. n. 152/2006 richiede che l’ulteriore utilizzo del sottoprodotto sia legale, ossia che la sostanza o l’oggetto soddisfi, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e che non porti a impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana. Questa condizione ricorre quando l’utilizzo del sottoprodotto non è espressamente vietato, sono soddisfatte le specifiche tecniche di riferimento (ove esistenti) e la gestione non genera impatti peggiorativi rispetto alla materia prima che viene sostituita.
La disciplina di riferimento non fornisce, né lo ha sostanzialmente fatto la giurisprudenza in questi anni, ulteriori dettagli di carattere generale circa questa condizione, sebbene strategica per la corretta gestione del sottoprodotto in quanto atta a identificare sia la legalità che la “accettabilità” della sostituzione della materia prima con il sottoprodotto. La criticità principale attiene, dunque, all’individuazione delle modalità per garantire la conformità al requisito in analisi (valutazione normalmente svolta caso per caso).
Quanto all’utilizzo legale, vanno distinte – come anche contemplato dalla già citata circolare ministeriale 7619/2017 – due ipotesi. Laddove esista una disciplina di riferimento (sia essa norma tecnica o altra disposizione) per la commercializzazione o l’utilizzo del materiale (sottoprodotto) nel ciclo produttivo di destino, la non conformità del residuo rispetto ai requisiti richiesti dalla norma o l’aver effettuato un impiego difforme rispetto a quanto previsto, potrà far presumere la qualifica come rifiuto.
L’assenza di disciplina, invece, non costituirà un vincolo, ferma comunque la necessità di dimostrare l’assenza di impatti negativi. Ci si domanda (ed è aspetto critico) se, ove una disciplina esista, sia possibile comunque gestire il sottoprodotto per utilizzi “alternativi”. La valutazione andrà, in questo caso, svolta al fine di comprendere se la disciplina esistente costituisca un vincolo inderogabile (e, fuori dalla stessa, vi sia dunque un divieto) oppure se contempli solo uno degli utilizzi consentiti, e quindi la gestione del sottoprodotto per l’utilizzo “specifico” sia possibile. In tutti i casi, la dimostrazione della sussistenza del requisito di conformità “normativa” andrà documentata. Secondo la circolare ministeriale, ciò potrebbe avvenire con la scheda tecnica e relativa dichiarazione di conformità (disciplinate dal D.M. n. 264/2016, ma non obbligatorie) dove «sarebbe opportuno allegare la dimostrazione della rispondenza della destinazione agli standards merceologici ed alle normative tecniche di settore (Cass. Pen., sent. n. 17126/2015), fermo restando che, comunque, tale requisito non potrà ritenersi sussistente in caso di emergenze fattuali o documentali che provano la pericolosità (Cass. Pen., sent. n. 174532/2012)». Resta, ovviamente, salva la possibilità di provare il requisito con documentazione alternativa.
Quanto, invece, all’assenza di impatti complessivi negativi sull’ambiente o la salute umana (requisito che andrà valutato sia nel caso di esistenza di una disciplina di riferimento che in sua assenza, sebbene – in quest’ultimo caso – con maggiore rigore), l’analisi andrà svolta rispetto alle caratteristiche merceologiche del sottoprodotto e al suo utilizzo per la formazione del prodotto finale. La principale criticità insita in questa analisi attiene all’assenza, nella disciplina di riferimento, di parametri di conformità. Per superare questo scoglio, si adottano normalmente come elementi di raffronto:
- da un lato, l’utilizzo della materia prima sostituita;
- dall’altro, l’alternativa gestione come rifiuto[4]Nel documento Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste si specifica quanto segue con riferimento al requisito dell’assenza di impatti: «should be applied from the standpoint that the use of primary raw materials might also result in certain environmental or health risks. An indication might be gained from an assessment as to whether using and treating the production residue under the provisions of waste legislation would prevent adverse effects on the environment and human health»..
Laddove l’analisi – che andrà preferibilmente condotta in una prospettiva di ciclo vita e dovrà analizzare, preferibilmente attraverso una relazione tecnica, tutti gli impatti ambientali e sanitari correlati – porti a considerare equivalente (o migliorativo) il sottoprodotto rispetto alla materia prima e meno impattante rispetto alla gestione come rifiuto, il requisito potrà dirsi sussistente.
Tabella 1
Regole e criticità
Processo di produzione e “residuo” |
|
Certezza dell’utilizzo |
|
Normale pratica industriale | Orientamenti della Cassazione contraddittori |
Legalità dell’utilizzo e assenza di impatti negativi |
|
Note
1. | ↑ | Vedere Cassazione penale, 1° luglio 2015, n. 33028. |
2. | ↑ | Vedere Cassazione penale, 23 febbraio 2018, n. 8848 |
3. | ↑ | Vedere Cassazione penale 27 febbraio 2007, n. 8050. |
4. | ↑ | Nel documento Guidance on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste si specifica quanto segue con riferimento al requisito dell’assenza di impatti: «should be applied from the standpoint that the use of primary raw materials might also result in certain environmental or health risks. An indication might be gained from an assessment as to whether using and treating the production residue under the provisions of waste legislation would prevent adverse effects on the environment and human health». |